Mi sembra di vivere in una bolla, spero asettica. Sono più stupito che spaventato, più incredulo che spazientito (per ora). Lo spiazzamento deriva anche dal fatto che non sai con chi prendertela. Ma ciò impedisce di scaricare nella rabbia la tensione. A meno di colpevolizzare i Cinesi ma mi sembra veramente un alibi infantile e ingeneroso, pensando al prezzo che hanno pagato.
Invece molti Europei, grazie anche alle gravi carenze dell’Unione, pensano di indirizzare a noi la loro comoda, inattiva e improduttiva indignazione. I Cinesi sono talmente provati e pieni di sensi di colpa che un minuto dopo il cessato allarme sono partiti per l’Italia per portarci aiuti e consigli; intuiscono che solo noi possiamo capirli.
Tutti dicono: nulla sarà come prima, da questa esperienza usciremo più forti e migliori. È una vecchia teoria: già che accadono disastri, cerchiamo di ricavarne almeno un insegnamento, una utilità. Funziona da consolazione ma risponde anche ad una precisa esigenza di noi esseri raziocinanti (più o meno): trovare un senso in ciò che capita.
Passo le giornate girando su me stesso. Ho sempre apprezzato la routine perché permette di non accendere il cervello o di concentrarlo su un pensiero meritevole. Ma di fronte alla prospettiva di un vuoto di 18 ore al giorno ho deciso di applicarmi ad organizzare nel mio piccolo habitat (ora ben poco naturale) un nuovo ordine.
Sposto tutto e riorganizzo gli spazi, le funzioni, le abitudine. Ma per non cadere nella paranoia fine a se stessa, provvedo a che ci sia una finalità, un obiettivo, un risultato documentabili in quello che faccio. Ogni nuovo allestimento deve produrre un guadagno o di spazio o di visibilità o di utizzabilità. Ho sempre vissuto la mia casa come una camera d’albergo, diciamo per correttezza una mini suite (la suite è fuori portata perché manca la vasca di idromassaggio). È adeguata solo a fronte di un continuo andare e venire, partire e tornare. Non è questione di metratura perché io riempio comunque il doppio dello spazio, qualunque sia la capacità messami a disposizione. È che mi sento un apolide. Mi trovo bene dappertutto ma in nessun luogo sento il romantico e afrodisiaco genius loci.
Fingo di credere che la noia si combatta spostandosi, cambiando aria, quando so benissimo che essa è come l’infezione: la porti sempre con te. La prospettiva di avere centinaia di canali televisivi o di libri intonsi a tua disposizione è meravigliosa, a condizione di non aver tempo per goderli. Se invece hai l’intera giornata libera, ti coglie il panico e il successivo appisolamento.
Che prime impressioni possiamo trarre da un evento in pieno svolgimento, che può riservarci ancora sorprese e smentite?
Innanzitutto la conferma delle parole chiave di questo inizio di millennio: velocità e frenetico attivismo, soprattutto negli scambi (umani, di merci, di idee). In un mondo iperconnesso la rapidità non trova più ostacoli, rallentamenti o luoghi dimenticati. Forse ci eravamo convinti che i “contatti” fossero ormai solo virtuali. È vero che comunichiamo principalmente attraverso instancabili e poderosi strumenti telematici ma continuiamo a tenere sotto intollerabile pressione le precarie dotazioni di noi fragili essere umani. Invecchiamo oltre ogni più rosea previsione ma il nostro “veicolo” non ha più tagliandi a disposizione.
Abbiamo potuto constatare anche quanto siano ancora attuali le due principali divisioni del nostro Paese: quella territoriale e quella generazionale. Il gap umano, sociale e psicologico, oltrechè economico, tra parti della nazione lo puoi verificare semplicemente osservando la mappa della malattia. Essendo un contagio figlio della modernità si è prodotto nelle zone ricche. Pensate se fosse capitato -come nel passato- il contrario.
Se ce la farà, dovremo essere per sempre grati a Santa Lombardia. I giovani, sapendosi protetti, hanno reagito da par loro. Vivendo la vita come una permanente ed eccitante avventura, hanno ignorato ogni regola di buon senso (è la forma più economica di trasgressione), salvo poi ricredersi di fronte agli appelli dei loro idoli a “non uccidere le nonna”.
Ci sono state polemiche sulle forme di comunicazione del Governo. Al di là dei suoi intendimenti e delle sue capacità, io le ho trovate perfette.
Non so se ci rendiamo conto che siamo la prima democrazia al mondo che sta affrontando questo apocalittico scenario. Si va per tentativi. Si procede per gradi. Si fanno maturare imprescindibili consensi. Non so se sia ragione di orgoglio, ma davvero fungiamo se non da esempio almeno da cavia per tutti gli altri, compresa l’Organizzazione mondiale della sanità che non ha mai potuto testare una simile pandemia.
Bisogna compenetrare interessi opposti, far coincidere l’attualità dell’emergenza con le prospettive di ripartenza (per dirla come un tempo, non possiamo passare dalla peste alla carestia). Allora dare l’impressione (vera) che si sta decidendo insieme -vertice e base, élite e popolo- quali priorità darsi, quali sacrifici accettare, quale paura far propria è l’approccio vincente. Cosa c’è di più adatto a un Paese insieme smagato, cinico e furbo ma anche generoso ed eroico (penso ai sanitari, altroché deontologia!).
Quando finirà ricordiamoci di due cose: i geniali, divertenti, rassicuranti, distraenti messaggi, canzoni, foto, scenette postate in rete. Un esemplare modo di reagire.
Ma soprattutto ricordiamoci dello strano e indefinibile sentimento che stiamo vivendo, un misto di impotenza e di determinazione, di diffidenza e -forse perché vietata- di vicinanza. Quando mai ci capita di pensarci come Italiani e quando mai di esserne fieri.
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