Il 24 maggio 2020 non celebriamo, forse perché lontana 105 anni, l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 cantata da E.A. Mario nella Canzone del Piave: il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi Fanti il 24 maggio…… Furono tre anni di terribile guerra sui monti e sul mare, conclusa vittoriosamente, ma pagata con 650.000 morti ed 1 milione di feriti. E tra i morti ci furono 400 ufficiali medici dei 1400 che parteciparono direttamente al conflitto.
Il 24 maggio 2020, con solo cinque nuovi contagi a Roma, non celebriamo, forse per scaramanzia o forse per la dolorosa coda lombarda, la guerra vinta al coronavirus, pagata con più di 32.000 morti e più di 220.000 feriti ossia contagiati.
Ora però, almeno per me medico, è il momento per commemorare e celebrare i 163 medici caduti in questa guerra virale, qualcuno come semplice cittadino, ma i più nell’esercizio del loro dovere professionale in genere svolto, per l’imprudenza organizzativa generale, a mani nude, armati del solo spirito di dedizione professionale e di amore per il prossimo. È stata una lunga catena di storie tragiche, di sofferenze, di dolore nei letti di Ospedale per quelli che invece, a parti invertite, accanto a quei letti avevano speso la miglior parte della propria vita.
Per primo, il 10 marzo, morì un collega illustre il Presidente dell’Ordine dei Medici di Varese, sessantasettenne medico di base ossia di famiglia, che nella propria Provincia stava tentando di organizzare la difesa contro il virus e che nel proprio ambulatorio di Busto Arsizio contrasse l’infezione insieme ad un altro collega fortunatamente sopravvissuto. Fu un lutto grave e significativo non solo per la sua famiglia e per quella società professionale e civile, ma per l’intero mondo medico, ossia per la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri nella quale il dr. Stella ricopriva da anni una posizione impegnativa e di rilievo. Non bastarono quelle grida individuali e collettive a richiamare l’attenzione sulla condizione inadeguata con la quale i medici del territorio affrontavano la malattia dei propri pazienti negli ambulatori o nelle abitazioni e residenze private.
Dopo Stella altri 52 medici del Servizio Sanitario Nazionale, di base o di famiglia, sono morti contagiati dai propri pazienti, nella terra di nessuno posta tra il protettivo Lock- down di milioni di civili e il drammatico ma attrezzato fronte dei reparti di degenza ospedaliera e delle rianimazioni. Nella terra di nessuno, senza frontiera protettiva, con i 52 medici di base si sono contagiati altri 110 medici delle più diverse specialità: pediatri, neurologi, otorini, internisti, diabetologi, ginecologi, ematologi, oculisti, eccetera e ben 12 dentisti richiamati nei loro studi dalla urgenza indifferibile dei dolori dei propri clienti. Sono morti anche due illustri e coraggiosi medici già in pensione, richiamati in servizio ed accorsi ad aiutare i propri ex colleghi coinvolti nell’assistenza intensiva.
L’ultimo a morire, il 12 maggio, è stato un valoroso anestesista piemontese Davide Cordero sessantaduenne, in servizio da anni al Centro di Rianimazione dell’Ospedale di Monza. È morto nel reparto dove aveva passato la vita, ringraziando e salutando con affetto i suoi colleghi che lo stavano curando amorosamente, quando per l’ingravescente difficoltà respiratoria gli fu comunicata l’esigenza di porlo in coma farmacologico per intubarlo ed assisterlo con la respirazione meccanica. Nessuno più di lui in quel momento avrà temuto e capito che la sua storia volgeva al termine ed iniziava il viaggio senza ritorno.
Stiamo vivendo la seconda fase della pandemia da coronavirus in Italia, con 163 medici e 40 infermieri in meno, vittime della fase precedente. Sembrano numeri statisticamente poco significativi rispetto agli oltre 32.000 morti complessivi e i 220.000 contagiati dei quali 25.000 appartenenti al settore sanitario. Ma i 32.000 civili morti sono stati, per così dire, vittime innocenti colte alla sprovvista ed all’improvviso dal contagio proveniente da chissà chi e da chissà dove, insomma indifesi. I 203 medici e infermieri deceduti e tutti quelli contagiati, sapevano invece di che si trattava, dov’era il pericolo e come difendersi, ma per carenze del sistema sono andati avanti a mani nude, senza frontiere protettive, per soccorrere i loro pazienti o per affrontare ambienti a rischio. Cioè un massacro annunciato. E per una tale improvvida condizione 163 medici sacrificati sono troppi, anzi sono un peccato grave per il pur eccellente Servizio Sanitario Nazionale e per la enorme macchina di soccorso messa in moto da Governo e Regioni.
Lo sforzo organizzativo si è svolto quasi tutto al letto del malato negli Ospedali Covid e nei reparti dedicati, forse in eccesso, con il raddoppio, forse esagerato, dei posti letto nelle Rianimazioni, con l’assunzione temporanea di medici e infermieri, con l’acquisto di apparecchiature di laboratorio, con l’arruolamento di volontari coraggiosi. Lo sforzo politico attraverso i DPCM è stato quello di attuare un feroce Lock-down, ben accettato dalla larga maggioranza della popolazione, seppure con qualche mugugno.
Il problema maggiore si è però determinato nello spazio, la terra di nessuno, posto tra i palazzi del domicilio coatto, dove sono rimasti asserragliati più di 55 milioni di italiani e la frontiera ospedaliera dove sono stati affrontati e curati sino alla guarigione o al decesso più di 220.000 persone. Nella terra di nessuno invece, come dire sotto il fuoco amico, affidata imprudentemente al caso, tra i circa 4 milioni di italiani impegnati per la sopravvivenza degli altri e come tali esposti al contagio, sono caduti i 163 medici ed i 40 infermieri nell’espletamento del loro dovere.
Quando si parla oggi e si parlerà nel futuro della Medicina del territorio, i responsabili dell’organizzazione del settore dovranno ricordare queste vittime e la relativa responsabilità morale di chi di Medicina del territorio ha sempre parlato, ma mai operato in maniera da renderla una realtà efficiente e protetta, non con cavilli burocratici e vane promesse politiche, ma con mezzi e organizzazione del lavoro, tali da configurare una vera struttura di assistenza degna di questo nome in un Paese civile e della dedizione degli operatori.
Un’ultima riflessione meritano le passerelle televisive per lo più occupate da scienziati e studiosi ottimi culturalmente, ma ai quali spesso manca l’esperienza diretta sul campo. La pratica degli Ospedali è cosa diversa dalla lettura dei libri e dalle sperimentazioni di laboratorio e la società civile è un immenso mondo diverso dal chiuso delle stanze della ricerca.
Non si può nascondere che Giornali e Televisioni hanno utilizzato il Covid non solo per informare la popolazione, ma anche per occupare in maniera ossessiva e ripetitiva, spazi, notiziari e format, ed i medici, i biologi, gli epidemiologi, si sono prestati per dovere o per vanità a questo che si può anche considerare un gioco al massacro. Nella noia delle lunghe giornate trascorse nel chiuso delle abitazioni il televisore, più che i giornali, ha rappresentato un compagno ineludibile attraverso il quale però non era difficile immaginare la suggestione ed il plagio. Le formule matematiche incomprensibili ai più, mal si adattano alla medicina che ancora, malgrado gli sforzi, è più intuizione che deduzione. Ed i lunghi dibattiti su numeri, percentuali e statistiche sono spesso stati smentiti dai fatti e prodotto anche negativi effetti.
Il rispetto che si deve ai 32.000 cittadini che sono scomparsi vittime del male, impone che la loro storia non debba diventare teatro e spettacolo e che il terrore che una certa lettura dell’evento ha prodotto e produce ancora non è salutare né allo spirito dei sopravvissuti, ne’ per i giorni che ci aspettano.
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