“E’ tornata la splendida ossessione del centro”, così ha intitolato l’editoriale di Domani, firmato da Nicola Imberti, in una domenica soleggiata e tiepida, di quelle che orientano all’ottimismo. Salvo che la nube nera salita il giorno prima a coprire il cielo politico italiano, in una Roma che ha rivisto in campo gli squadristi, aveva comunque già diminuito ogni ottimismo senza produrre, diciamo, sentimenti molto moderati.
La conclusione di quell’editoriale, in linea con una certa tendenza della realtà, almeno come appare finora, è che quella ossessione va giudicata come “praticamente irrealizzabile” prefigurando che “rimarrà un miraggio” e sostenendo che perfino Calenda a Roma non ha avuto successo per “centrismo” ma per aver dimostrato cultura di governo.
Come sempre nelle questioni controverse c’è del vero se si spinge verso l’interpretazione favorevole così come se si spinge per l’interpretazione sfavorevole.
Non resta dunque che selezionare un po’ la questione, almeno attorno ai paradigmi più invalsi.
Centrismo cosa vuol dire? Moderatismo? Neo-democristianità? Equidistanza?
Ecco quindi che, con i parametri che trascinano nel presente l’eredità della prima e della seconda Repubblica, questo centrismo appare appunto una ossessione più malata che splendida.
Tanto che probabilmente nelle trasformazioni del nostro sistema politico anche la parola centrismo rischia l’inservibilità. Al punto che la ridefinizione diventa allora un problema di ricerca
Colpisce che, potendo contare tutti i soggetti un po’ smarcati dalla polarizzazione destra-sinistra già su quattro o cinque anni di cantiere, non abbiano pensato di creare fin qui un pensatoio teorico capace di mettere a fuoco un posizionamento più approfondito in termini di aggiornata cultura politica.
Non solo. Ma anche con nuove riflessioni sui modelli di partito; sul rapporto con il nuovo civismo; sulla rappresentanza della trasformazione sociale (e della vecchia cultura delle classi); sul significato programmatico del modello economico pubblico-privato; su una moderna cultura delle istituzioni e delle loro necessarie riforme.
E se vogliamo aggiungere una cornice etica anche in termini dei significati oggi attribuibili alla massima degasperiana che un qualunque politico pensa alle elezioni ma un vero statista pensa al futuro delle generazioni. E, per ricondurre le cose all’attuale momento di transizione, anche in termini del rapporto – su cui oggi l’unico a fare (moderata) sperimentazione è Mario Draghi – tra dimensione nazionale ed europea nella gerarchia delle riforme necessarie e nelle modalità di finanziare il rapporto tra crescita ed equità.
Proprio sul terreno della ridefinizione di uno spazio politico “competitivo” in cui il centrismo con orientamento neoliberista non viene visto né come una soluzione né come una terza via, ci sono tentativi di aggiornamento del dibattito sulle culture liberaldemocratiche e liberalsocialiste (ottanta anni fa Rosselli, cinquanta anni fa Bobbio) che, appunto, rigenerano la difficile quadratura tra “crescita ed equità”.
Esce, per esempio, in questi giorni, edito da Laterza, L’illusione liberista, a firma di Andrea Boitani, economista di spessore, altro allievo (come Mario Draghi) di Federico Caffè, che sembra fatto apposta per offrire sponde al “manifesto che non c’è”, affinché non si caschi nella semplice sovrapposizione di una politica con “l’ideologia del mercato”.
N.d.R.
Il pezzo di Stefano Rolando riprende un suo commento all’editoriale di Nicola Imberti per il quotidiano Domani dal titolo “Quella per il centrismo è un’ossessione malata“.
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