La Finestra sul Cortile

Recensioni di libri di viaggio. Coronavirus ed il dopodomani

Premessa. Oggi è il fatidico 18 maggio

Mentre il clima di questa domenica – in qualche parte d’Italia – era di mordere il freno per la “ripartenza”, altre due Italie hanno guardato con sospetto a piazze, spiagge, parchi e caffè tornati, pur con qualche mestizia, a rifiorire.

Il primo fronte è quello dei “virologi” – come abbiamo maldestramente cominciato a chiamare la comunità scientifica che abbiamo virtualmente frequentato nei talk-show – che ringhiano un po’ sulle misure liberalizzanti, non alzano barriere intransigenti ma avvertono che al primo segnale seriamente negativo si ridiscute tutto. Oppure fanno come l’ironico infettivologo Massimo Galli (che a differenza dei virologi passa le giornate con i pazienti) a sostenere quello che da tempo scrive e dice Guido Silvestri: va bene, lo avete voluto e allora adesso la fase è di “convivere con Coronavirus”. Lanciando un tema metà filosofico, metà esperienziale sui cui pochissimi la sanno lunga.

Il secondo fronte – anche qui la parola è impropria – potremmo chiamarlo quello degli intellettuali, insomma i professionisti del pensiero, che attorno al lock-down hanno fatto qualche scommessa sul rinsavimento degli italiani, o per lo meno sul possibile miracolo di massa di una revisione del modello consumistico sparato.

Ne fanno parte alcuni giornalisti, alcuni scrittori, i filosofi in schiera e anche quei macro-economisti a cui i conti non tornano dalla lunga crisi finanziaria innescata nel 2008 e che pensano che la crescita sia una buona cosa ma che vada coniugata con più uguaglianza.

Mentre gli scienziati sono quasi tutti usciti in libreria nei primi due mesi della pandemia (chi è il virus, come ci infetta, come ci ha infettato per millenni, quando la curva declinerà, che relazione c’è tra contagio e immunità e altre mille quesiti), ora è il momento del secondo fronte. Che si annuncia in edicola a bordo dell’editoria generata dai due maggiori quotidiani italiani, Corriere e Repubblica. Ai due libricini sfogliati nel week-end è dedicata questa recensione. Due libri profondamente diversi, come dirò. Ma che hanno in comune il tratteggio di un viaggio affascinante e pericoloso, necessario ma non garantito. Una specie di moderna Arca di Noè in partenza per il dopodomani. Quando i cambiamenti saranno avvenuti chi si è messo in viaggio li capirà e li cavalcherà. Chi non si è messo in viaggio guarderà il nuovo mondo dalla riva lontana, come è successo tante volte nella storia.

Ecco perché ho intitolato la recensione “libri di viaggio”.

La questione del dopo

Si fa strada, non con grandissima forza ma si fa strada, il tema del “dopo”. Non inteso come questione di giorni, ma come questione di anni. Non è semplice per tutti accettare questa doppia fatica psicologica e materiale.

Da un lato, il riadattamento a questioni concrete, lavoro, relazioni, conti da quadrare, comportamenti pratici. Dall’altro lato, essere partecipi e in qualche modo vigili attorno ai cambiamenti che non sono declinati in un dpcm, non sono negoziati tra regioni e ministeri, non sono codicilli ai prestiti europei (o che poi un po’ lo sono anche), non sono questioni che le amministrazioni possono aggiustare con multe o con defiscalizzazioni.
Parliamo dei “cambiamenti epocali”, quelli per i quali – nella storia – ogni grave e sconvolgente crisi (guerre, terremoti, catastrofi, pestilenze, crack finanziari, sommovimenti rivoluzionari, grave terrorismo, eccetera) ha determinato “salti di specie”, trasformazioni capaci di mescolare innovazioni e qualche crudeltà, promuovendo nuovi postulati egualitari e consolidando vecchie ineguaglianze. Che per una parte minoritaria sono veri progetti delle classi dirigenti ma invece per lo più corrispondono alla misteriosa profilazione del “cigno nero”. Una sorta di ardimento del destino, misto tuttavia a qualcosa che la matematica potrebbe intuire e spiegare, cioè sommatorie di eventi disomogenei che improvvisamente fanno sistema.

Il dibattito è innescato da tempo nel corso di questa crisi

Il “non sarà mai più tutto come prima” non nasce solo dai filosofi, ma anche dalle commesse, dagli operai, dagli studenti. Dunque è un sentimento credibile. Che tuttavia, mescolando speranza e paura, ha contorni – anche fossero solo quelli di pensiero – molto incerti.

Che infatti, ha dato origine a due partiti per ora diciamo intellettuali, che giorno per giorno producono argomentazioni. Coloro che immaginano che saremo tutti migliori: perché il noi va sostituendo l’io; perché l’altro è diventato oggetto più di compassione che di rancore; perché la crisi riporta a principi basilari e quindi costituzionali; perché la quota di innovazione oggettiva che la crisi ha attivato sostituirà necrosi e perdite; eccetera. E coloro che immaginano che saremo tutti peggiori: perché si stacca dalla corsa un pezzo troppo consistente di società, per non portare una dose pesante di conflittualità; perché l’alterazione degli equilibri (da quelli geopolitici a quelli famigliari) esprimerà contenziosi senza adeguate regole; perché la paura mal governata da eccelsi sistemi di accoglienza e di accompagnamento (che non ci sono) si incancrenisce; perché il rischio che la soglia di dignità si abbassi anziché alzarsi serpeggia come probabile.

Tutto ciò a parità di dati, che appaiono per ora poco chiari, circa la fine della pandemia, l’arrivo rassicurante dei vaccini, l’evitare la minaccia della seconda ondata.

L’accompagnamento dei media

La vita non ce la cambierà un’inclinazione ottimistica o pessimistica dell’informazione. Tuttavia è l’informazione che ci ha più accompagnato nel corso del perdurante lockdown. Essa è entrata davvero nelle nostre cose. Essa – in forma multigenere – ci ha legato ai fatti e in qualche modo ha favorito le nostre interpretazioni. Non è poco, nello smarrimento. Ed è per questa ragione che soprattutto i quotidiani (che sempre debbono rispondere alla spada di Damocle di una trasformazione di sistema che fa scrivere che persino il New York Times avrà un ultimo giorno di vita nelle edicole) utilizzano con una certa frequenza l’opinione di esperti oppure di sognatori (entrambi con diversi diritti di predizione) per delegare le risposte ai pressanti interrogativi. Costruendo così piste immateriali, giorno per giorno, che configurano il famoso bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ovvero il colore del cielo, che quando è striato dalla nuvolaglia autorizza a immaginare tanto la schiarita quanto il temporale. Nessuno ha davvero il diritto di tirare oggi la somma delle risposte che si aggiungono giorno per giorno. Ma è consigliabile farlo questo esercizio di sintesi, ovvero farlo nella nostra testa di semplici cittadini, perché abbiamo il dovere verso noi stessi di non trovarci del tutto impreparati, del tutto sprovvisti di avvertimenti, il giorno in cui appunto la “storia” tirerà le fila. E senza fare conferenze stampa, senza scrivere decreti, ci scodellerà il “cambiamento” come il vero inizio del “dopo”, a cui per ora è data vaga collocazione nel tempo e nello spazio.

Ed ecco la recensione dei libri di viaggio

In attesa che anche Il Sole 24 ore piuttosto che la Stampa, il Mattino piuttosto che il Foglio, facciano cose simili lavorando sulla loro “dispensa”, in questo we l’edicola ci ha presentato le proposte dei quotidiani battistrada. Non sorprende che i due maggiori quotidiani italiani – il Corriere della Sera e la Repubblica – abbiano trasferito negli stessi giorni, cioè alle viste della “Fase 2”, una (diversa) selezione delle famose risposte acquisite giorno per giorno, riproponendocele in edicola ma in forma di libro. Qualche volta si dice che i media concorrenti si telefonino in alcune occasioni per imitarsi o per non pestarsi i piedi. Forse questa volta lo hanno fatto i direttori dei due quotidiani, Luciano Fontana al Corriere e Maurizio Molinari a Repubblica. Che si sono fasati sui giorni d’uscita, si sono fasati sull’idea del “dopo”, si sono fasati sulla “minestra riscaldata”, cioè sulla validità giornalistica di riproporre in una selezione sensata il già pubblicato, ma hanno preso strade diverse in ordine alla scelta di contenuto e di conseguenza attorno al significato stesso del frame dopo.

Il mondo che verrà – Il futuro dopo il virus

Repubblica ha fatto leva, per la prima parte del suo “Il mondo che verrà – Il futuro dopo il virus” (200 pagine, 6,90€), quella dedicata al mondo, alla dispensa del suo supplemento del lunedì, Affari&Finanza, che ha contenuto un buon numero di interviste di grandi nomi dell’economia, della scienza, dell’analisi sociale e della trasformazione del pensiero (Jeremy Rifkin,  Janet Currie, Parag Khanna, Nouriel Roubini, Joseph Stiglitz, Nassim Taleb, Yuval Harari, Slavoj Zizek, Shoshana Zuboff, Jarel Diamond, Nathan Wolfe, David Quammen, Laura Spinney, Jurgen Habermas, Olga Tockarczuk e persino papa Francesco).  Con una più piccola seconda parte dedicata all’Italia e al contributo di quattro “firme” che abitualmente sanno ben raccordare – per sentimenti e padronanza di penna – fatti concreti e trasfigurazioni di senso: Alessandro Baricco, Paolo Rumiz, Roberto Saviano e Concita De Gregorio. Tiene legate le due parti l’introduzione di Federico Rampini che si pone proprio il problema dell’uso che le classi dirigenti sanno fare ovvero saranno in grado di fare –  del portato visibile e invisibile delle crisi. Ne afferma l’importanza, non è sicuro che sia in atto una adeguata rielaborazione, la sollecita. L’editor non ha avuto remore ad usare un curioso verbo nella quarta di copertina per chiedere attenzione ai lettori: “Mentre ci battiamo contro la malattia e contro l’impoverimento di massa, imploriamo un po’ di visibilità sul futuro”.

C’è un posto al mondo. Siamo noi

Il Corriere sceglie un formato leggermente meno “tascabile” e una grafica che si avvicina a quella delle sobrie collane letterarie. E infatti lo sguardo è più umanistico, più declinato nell’ ”essere uniti, tutti, senza confini”, contenuto nella proposta del direttore Luciano Fontana ed espresso dal titolo stesso della raccolta: “C’è un posto al mondo. Siamo noi” (174 pagine, 8,90€). Il punto di partenza della raccolta dei 17 contributi (anch’essi naturalmente trasferiti dalla quotidiana capacità di interrogazione del giornale dei suoi supplementi) sta attorno al nuovo lessico della crisi, alla frequenza di parole nuove o inusuali che hanno scalato la prima pagina: distanza, fragilità, contagio, isolamento, paura, abbraccio, desiderio. Eccetera. Ognuna contiene la fessura emotiva e filosofica per lanciare lo sguardo al futuro. A cominciare dal “poema civile” di Sandro Veronesi sulla ruminazione dolente per le modalità della morte di tanti anziani nella case di cosiddetto riposo: “C’è un posto del mondo in cui il mondo non è più il mondo”. Le firme sono quelle di André Aciman, Silvia Avallone, Teresa Ciabatti, Maurizio de Giovanni, Catherine Dunne, Richard Ford, Paolo Giordano, Etgar Keret, Claudio Magris, Dacia Maraini, Eshkol Nevo, Antonio Scurati, Keikla Skinmani, OIga Takarczuk. Oltre a due esponenti della “comunità scientifica” tra i più sintonizzati con l’opinione pubblica per la precisione del lessico nella frequente spiegazione della pandemia: Ilaria Capua e Alberto Mantovani.

Anche qui l’editor fa una proposta emotiva. La sollecitazione è al futuro, si è detto. Ma guardate bene la forza di lettura di questo presente – dice – scoprirete che quel futuro è già cominciato: “Quel posto è qui”.

Due citazioni

Dal dossier di Repubblica non possiamo evitare di posare lo sguardo sulle parole di Jϋrgen Habermas, l’anziano filosofo e sociologo tedesco che ha modernizzato, se non addirittura inventato, l’espressione “sfera pubblica”:

  • L’Illuminismo ha sempre fatto affidamento sull’efficacia della scienza ed è esso stesso un modo di pensare scientifico. Al suo interno però c’è anche una riflessione sui pericoli di considerare i progressi scientifici in maniera democraticamente incontrollata, vale a dire soltanto a partire dagli interessi privati dell’economia”.

Dal dossier del Corriere, la scelta cade su un testo-monito, scritto a Trieste nel corso del mese di aprile da Claudio Magris e intitolato “I record della stupidità”. Ricco di spunti, ma uno aiuta a fare retromarcia rispetto alla spinta retorica che sta in agguato dietro a ogni narrativa sulla crisi:

  • Sarebbe bene rifiutare di considerare tutto ciò che succede, pur riconoscendone la forza, come ineluttabile. Non fare troppi inchini alla Storia e all’alto volume del suo karaoke, oppure, come Bertoldo alla regina, farle la riverenza all’indietro. Marciare, quando si deve, al passo della Storia, ma ogni tanto, se si può, mettere lo zaino a terra, marinare la scuola”.
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Stefano Rolando

Stefano Rolando è nato a Milano nel 1948, dove si è laureato in Scienze Politiche e specializzato alla Scuola di direzione aziendale della Bocconi. Tra vita e lavoro si è da sempre articolato tra Milano e Roma. E' professore universitario, di ruolo dal 2001 all’Università IULM di Milano dopo essere stato dirigente alla Rai e all'Olivetti; direttore generale dell'Istituto Luce, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Consiglio Regionale della Lombardia. Insegna Comunicazione pubblica e politica e Public Branding. Ha scritto molti libri sia su media e comunicazione che di storia, politica e questioni identitarie. Da giovanissimo è stato segretario dei giovani repubblicani a Milano, poi ha partecipato al nuovo corso socialista tra anni settanta e ottanta. Poi a lungo non appartenente. Più di recente ha lavorato sul civismo progressista (Milano e Lombardia) e su un progetto politico post-azionista in relazione al quale è parte della direzione nazionale di Più Europa.

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