In tutti i Paesi, vecchi e nuovi produttori di olio dalle olive, gli oliveti sono diventati piantagioni da reddito, e la nuova olivicoltura mondiale, che arriva a produrre 3.000.000 di tonnellate è il risultato di scelte innovative e soprattutto delle nuove piantagioni che hanno produzioni di qualità crescente, che stanno scalzando sui mercati il prodotto made in Italy, per la semplice ragione che l’Italia, con le sue produzioni decrescenti, non è più in grado di imporsi in nessun mercato. Nell’ultimo decennio si è passati da oltre 800.000 tonnellate di olio nel 2004, quando c’erano i modelli F, a meno di 400.000 tonnellate nel 2013, dopo l’entrata in vigore del sistema SIAN, alla produzione 2018 di 175.000 tonnellate.
E’ il risultato di politiche sbagliate ma anche di metodi di conduzione delle imprese agricole, approssimativi e mirati al massimo risparmio, fino a nessun intervento, riportando la coltivazione dell’olivo ad una coltura di sussistenza. Oggi la previsione di produzione, già nettamente inferiore alle attese, diventa il segnale inequivocabile del declino della nostra olivicoltura.
La campagna in corso mette drammaticamente in luce tutto questo: in un momento in cui il valore dell’olio stava risalendo verso limiti di convenienza economica e malgrado nel Mediterraneo si annunciano produzioni da record, nel Bel Paese mezzo stivale è a secco di olive.
Ciò determinerà, come accade da decenni, un aumento delle importazioni con un netto guadagno per quella industria del confezionamento anglo-cinese a marchio italiano.
Attualmente l’Italia produce meno della metà dell’olio rispetto ai propri fabbisogni: il consumo di olio di oliva in Italia è assestato intorno a 800.000 tonnellate, quindi sono necessarie circa 500.000 tonnellate di olio per soddisfare il consumo nazionale, alle quali si devono aggiungere almeno altre 200.000 tonnellate per poter continuare ad alimentare le esportazioni.
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Non solo nella tradizionale area del mediterraneo dove primeggia la produzione spagnola, ma cresce quella siriana e tunisina che insieme fanno 400.000 tonnellate (più dell’attuale produzione italiana), mentre la Grecia mantiene la produzione e migliora la qualità. C’è poi il continente americano dove le produzioni cilene e argentine sommate a quelle della California fanno una significativa concorrenza sul mercato degli Stati Uniti, per non parlare dei nuovi impianti australiani.
Se non vogliamo dichiarare forfait occorre prendere atto che la struttura produttiva nazionale dell’olio dalle olive deve essere radicalmente cambiata, e presto. Ci vuole un sistema di strumenti incentivanti nel quadro di un nuovo piano per l’olivicoltura, ma forse c’è un modo ancora più semplice, se vi fosse la volontà politica, e cioè la Conferenza Stato-Regioni potrebbe deliberare di mettere in testa alla classifica dei finanziamenti previsti dal PSR i progetti di nuovi impianti arborei. A questo punto ci ha portato un sistema di potere, un sistema assistito, un sistema clientelare di cui sono stati complici partiti e associazioni, imprese e governi.
Abbiamo bisogno di una nuova “visione”, di una cultura politica e soprattutto di una nuova e giovane classe dirigente, nei partiti, nelle associazioni, nell’economia, portatrice di idee nuove, capace di governare secondo una scala di valori diversa dal passato (e dal presente), avendo la consapevolezza che il mondo sta cambiando in modo radicale e che indietro non si torna: la ricchezza si è spostata da ovest verso est e la Cina è il nuovo baricentro.
Il vecchio sistema economico-industriale del made in Italy si è sgretolato sotto i colpi della crisi, mentre la nostra manifattura cerca di sopravvivere sfornando vecchi prodotti a basso valore aggiunto in una logica sempre contraria ai diritti dei consumatori. Nello stesso tempo si è definitivamente dissolto il vecchio sistema della rappresentanza sociale fatta di partiti ideologici, sindacati e associazioni corporative.
“Facciamocene una ragione” è stato il paravento di una pericolosa tolleranza dietro cui i governi Berlusconi di destra e i governi Prodi di sinistra hanno promesso, e non fatto, riforme che non volevano, garantendo così, a corporazioni e lobby, il mantenimento di uno status-quo funzionale soltanto ai loro privilegi.
Poi sul palcoscenico è salito Matteo Renzi: abbiamo applaudito per incoraggiarlo, con la speranza che il suo programma avesse successo. Le prime scene sono piaciute, ma non è andata a finire bene: la madre di tutte le battaglie, la riforma della Costituzione, l’ha persa in malo modo.
Una parte significativa della società italiana è impegnata nella difesa a oltranza dello status quo. Il cambiamento, per quanto definito necessario da tutti, deve fronteggiare una resistenza e una “opposizione di popolo”. Siamo entrati in una nuova fase di transizione, i partiti di riorganizzano e “fondano” nuove identità mentre le maggiori corporazioni stanno a guardare, e dietro le scrivanie burocrati e gran commis riorganizzano le loro carriere distribuendo trappole nei corridoi dei ministeri.
Presto o tardi la storia si preoccuperà di suonare la sveglia, sarà il momento in cui si impone la svolta, scelte coraggiose non più rinviabili fatte da protagonisti esperti, nuovi e capaci.
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