Non c’è niente di più classico e contemporaneo della maschera, in questo “tempo virale”. La maschera è stata un’invenzione del mondo antico, di quello greco. Era indispensabile nelle rappresentazioni teatrali, un elemento essenziale della tragedia greca quando scendevano in campo i drammi e i conflitti esistenziali dell’uomo, uguali per tutti nel tempo e nello spazio. La maschera era indispensabile per assumere un ruolo, per interpretare la complessità dell’esistenza.
Attraverso percorsi contorti ma prevedibili si è giunti alla maschera carnevalesca: la rappresentazione delle stesse inquietudini di sempre che, in tono satirico, beneficiavano della forza catartica, riflessiva e critica del riso. Alcune di queste, come la maschera di Pulcinella, ancora oggi sono portatrici di raffinate visioni filosofiche dell’umana sorte. Rappresentano un modo di intendere la vita e i rapporti umani.
Per Pirandello la maschera era la negazione della vita. Rigida nella sua fissità congelava l’inarrestabile flusso vitale. Essa era una prigione obbligata da cui l’uomo non poteva uscire se non a costo di una drammatica solitudine o di un disperato isolamento, spesso determinava una lucida follia in chi avvertiva forte la scissione tra vita e forma\maschera. “Rappresentava” l’inautenticità della vita, ridotta ad una semplice pupazzata.
Al tempo del covid19 le masch-erine, introvabili e costosissime, sono la rappresentazione di un dramma moderno, quello della fragilità e della precarietà di ogni cosa, in primis dell’uomo che si illudeva di poter dominare ogni imprevisto con la forza cinica della sua logica matematica e con l’onnipotenza della scienza. Sono diventate armi per difendersi da un nemico invisibile e quindi pericoloso, un’arma, in verità, più psicologica che reale, utile a mantenere una difesa “tra i miei e i tuoi confini”, una distanza di guardia in un momento in cui anche una stretta di mano può diventare un pericolo mortale. Simpatico considerare che tutto sia accaduto nelle settimane del Carnevale; sicuramente il Coronavirus ha un sottile senso dell’umorismo, ironicamente si prende gioco della nostra civiltà super affaccendata, interconnessa e frenetica.
Le mascherine denunciano una paura incontrollata e incontrollabile non solo del “lontano” ma anche del “vicino”, dell’affine; la paura di un contatto anche fugace, la volontà di difendere un IO diventato improvvisamente espugnabile e per la cui difesa sono inutili muri e fili spinati, di un IO che da onnipotente giudice del diverso ora si avverte a sua volte egli stesso diverso, minacciato e incerto.
Altre volte teatralizzano la politica di questo “secol superbo e sciocco” che vuole presentarsi rassicurante ma che si percepisce impreparata a dispetto di progetti supposti per “magnifiche sorti e progressive“.
Fa uno strano effetto vedere in giro, o meglio in corsa mascherine chirurgiche con la pretesa di garantire la salute, di allontanare la malattia. In realtà esse servono principalmente ai malati per evitare la trasmissione del virus non ai sani. Sono pertanto, il più delle volte, barriere inutili, atte solo a rafforzare le distanze tra se stessi e gli altri, esprimono insicurezza, ansia, panico, fobie deleterie almeno quanto il covid 19.
Sono la risposta forse più irrazionale per sopravvivere al dolore di fronte alla propria impotenza certificata. Una fuga con poco peso e poca presenza, la risposta emotiva ad un male che non si sa come controllare. Paradossale anzi kafkiano considerare che il nemico può essere dietro l’angolo al di fuori di ogni sospetto e, tra l’altro, senza colpa.
“AL PENSIER MIO CHE SEMBRI ALLORA, O PROLE DELL’UOMO? (…) QUAL MOTO ALLORA, MORTAL PROLE INFELICE, O QUAL PENSIER VERSO TE FINALMENTE IL COR M’ASSALE? NON SO SE RISO O LA PIETÀ PREVALE” (Leopardi . G La ginestra)
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