Lunedì 17 giugno 2019, nel pomeriggio, viene diffusa la notizia della morte dell’ex Presidente egiziano Muhammad Morsi, primo presidente democraticamente eletto della storia egiziana e primo non militare ad aver ricoperto questo ruolo nel 2012. Quando è avvenuto il decesso si trovava in un’aula di tribunale, dalla quale Morsi provava a difendersi da una serie di accuse: cospirazione con Hamas e Hezbollah per una fuga di massa dalla prigione durante la rivolta del 2011; incitamento alla violenza contro i manifestanti; cospirazione con il Qatar (40 anni di pena in primo grado per aver trasferito documenti di interesse nazionale a Doha).
Tutti capi di accusa che hanno reso i suoi ultimi anni di vita un’agonia durissima. Agonia condivisa da altri membri della Fratellanza Musulmana, l’associazione messa ufficialmente al bando all’indomani del colpo di stato del luglio 2013 che – manu militari – aveva rovesciato il governo dell’allora presidente Morsi trascinando tutti i suoi fedelissimi nella stessa sorte.
Ho intervistato la Professoressa Alessia Melcangi, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Sapienza di Roma e docente di Storia contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente, per comprendere meglio l’importanza di questo evento e in generale cosa accade oggi in Egitto, proprio nel sesto anniversario della deposizione di Morsi da parte dell’esercito (3 luglio 2013).
Morsi era un ingegnere chimico, con laurea egiziana e master in ingegneria metallurgica conseguito nel 1978; aveva proseguito poi gli studi all’University of Southern California vincendo una borsa di studio e si era dottorato in scienza dei materiali nel 1982. Si era avvicinato alla Fratellanza musulmana diventandone non uno sheikh carismatico ma un tecnico e un uomo di partito: egli era il numero tre all’interno del gruppo, dopo Mohammed Badie e Khayrat al-Shater (entrambi ancora in carcere e condannati, come il presidente defunto, a morte) che erano invece le personalità centrali.
Lo scoppio in Egitto della rivolta nel 2011, onda lunga delle cosiddette “Primavere arabe”, aveva permesso alla Fratellanza musulmana di operare finalmente in modo pubblico: nasceva il Partito Giustizia e Libertà, espressione politica dell’associazione. Sostenuto da gran parte dei membri al suo interno, Morsi venne candidato alle elezioni del 2012 – a causa dell’incandidabilità di Khayrat al-Shater, vera anima potente dell’organizzazione islamista, dichiarato non idoneo a correre per le elezioni per alcuni vizi di procedura – e le vinse, al ballottaggio, con il 51,7% dei voti contro lo sfidante Ahmed Shafiq, ex generale e ultimo premier dell’era Mubarak. Un voto sul quale pesò fortemente l’eredità del vecchio regime e le speranze della rivolta ancora vive e che portarono quindi ad un inaspettato risultato a favore della Fratellanza.
Il cosiddetto “anno di Morsi”, che va dal giugno 2012 al colpo di stato del luglio 2013, fu un anno molto complicato per l’Egitto attanagliato da una feroce crisi economica e da una crescente islamizzazione della società, il cui culmine fu la Costituzione emanata nel dicembre del 2012 di chiara ispirazione religiosa.
L’emanazione di un decreto che concedeva al presidente ampi poteri in materia giudiziaria – strumento attraverso cui Morsi mise in atto una chiara prova di forza contro i militari sempre presenti, seppur in seconda fila – e il clamoroso autogol che portò il presidente ad allontanare dal Consiglio supremo delle Forze armate l’80enne Mohammed Tantawi sostituendolo con il più giovane Abdel Fattah al-Sisi, furono esiziali per il suo governo. Fu proprio ‘Abd al-Fattah al-Sisi, divenuto nuovo Comandante supremo delle forze armate e ministro della Difesa che nel luglio del 2013 riportò i militari in piazza Tahrir, ma questa volta per destituire il presidente eletto democraticamente l’anno prima; e lo fece appoggiato ufficialmente da un’insurrezione popolare che tornò a richiedere l’intervento militare per porre fine al potere della Fratellanza.
Il 3 luglio Muhammad Morsi viene arrestato e con lui alti esponenti del gruppo islamista; l’organizzazione verrà poi messa fuorilegge dal regime di transizione nel dicembre dello stesso anno. Morsi muore esattamente sette anni dopo aver vinto il primo turno delle elezioni egiziane del 2012, quasi in coincidenza del sesto anniversario del colpo di Stato del 2013. Coincidenze sinistre e impressionanti.
La notizia della sua morte in realtà non coglie di sorpresa: Morsi aveva trascorso gli ultimi sei anni in prigione sottoposto a un regime molto rigido. Secondo quanto denunciato da Human Right Watch gliera precluso l’accesso alle cure per il diabete e per i problemi al fegato. L’ex Presidente era inoltre trattenuto in isolamento per 23 ore al giorno e gli era impedito di vedere i famigliari. Per tali condizioni di salute e di detenzione molti all’indomani della sua morte hanno parlato di “assassinio” – gli Ikhwan per primi – lanciando, neanche troppo velatamente, un’accusa al presidente al-Sisi e allo stato di repressione poliziesca sotto al quale vivono ormai i dissidenti politici e gli attivisti della società civile critici nei confronti del governo in carica. Morsi è stato immediatamente seppellito nella periferia del Cairo senza funerali di Stato e senza giornalisti. I giornali egiziani, posti sotto censura secondo le nuove leggi sul controllo dei media e di internet, hanno annunciato la notizia dedicandogli uno spazio minimo, giusto un necrologio degno di qualsiasi sconosciuto. Abbastanza forse per pensare che vi sia stata la necessità di seppellire il caso, insieme alla vittima, il più velocemente possibile al fine di evitare eventuali proteste e disordini sociali.
Con Morsi, come diversi articoli hanno riportato, muore la speranza, nata nel contesto rivoluzionario del 2011, di poter davvero costruire un Egitto basato su principi democratici e su una sana vita politica. Fine dei giochi per chi vuole opporsi al regime in carica, dimostrazione di forza ma anche di impunità, esempio per chi provi a opporsi al potere in carica, Fratelli musulmani in testa: la morte di Morsi evidenzia la misura in cui il dominio autoritario ha ripreso possesso del paese e gli sforzi del regime attuale per annichilire lo spazio politico, cancellare i diritti umani e fare tabula rasa dei piccoli successi conseguiti dopo le rivolte arabe del 2011.
Egli muore nelle carceri egiziane, dove più di 60.000 dissidenti e attivisti, stando alle stime di Human Right Watch e Amnesty International, giacciono in attesa di giudizio, condividendone spesso le disumane condizioni di detenzione. La morte di Morsi sottolinea dunque come il regime abbia pienamente realizzato quel processo non di restaurazione ma bensì di controrivoluzione silenziando violentemente qualsiasi voce contraria. Certo, il rischio che questa figura diventi un martire è concreto: all’indomani della sua morte diversi simpatizzanti della Fratellanza in esilio dagli Stati Uniti e da altri paesi hanno cominciato a manifestare apertamente contro il regime di al-Sisi condannandone la durezza e il violento dispotismo. Ma è possibile ipotizzare che succeda qualcosa del genere in Egitto? Credo proprio di no: ciò che resta degli Ikhwan è ormai nascosto, costretto ad operare in clandestinità e quindi per questo potenzialmente colluso con le organizzazioni islamiste più radicali.
L’aver stigmatizzato come “male assoluto” la Fratellanza, l’aver realizzato un sistema di controllo capillare della società in tutte le sue forme di espressione, l’aver blindato il proprio potere attraverso i recenti emendamenti passati all’approvazione lo scorso aprile fa comprendere quanto per al-Sisi il fattore sicurezza sia decisivo per la sua permanenza al potere; ma allo stesso tempo quanto in realtà proprio questo rappresenti il più pericoloso vulnus dell’Egitto di oggi.
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