In questo articolo proponiamo l’analisi del voto europeo dei Professori Pacelli e Mazzella, punti di vista differenti che ci aiutano a comprendere meglio quanto avvenuto ed i possibili scenari futuri. Il confronto di idee è alla base del nostro giornale, ringraziamo pertanto i due autori per i preziosi contributi.
Quando una consultazione elettorale riguarda 28 paesi e più di 400 milioni di persone, come è avvenuto domenica scorsa, è riduttivo focalizzare l’attenzione sui risultati elettorali di un solo paese: occorre guardare ad essi, ma anche a quelli complessivi ottenuti in Europa dalle varie forze politiche, comprese quelle anti sistema come ad esempio i neo nazisti austriaci.
Se pensiamo che esistano (?) politicamente anche loro e che Orban, il premier ungherese ed il suo partito, non sono poi molto diversi, viene quasi spontaneo concludere che per i liberal democratici non è andata poi tanto male.
I partiti cosiddetti “sovranisti” nelle varie significazioni del termine, contrari ad una Unione Europea con poteri sovrannazionali, hanno avuto buoni risultati complessivi ma non sono riusciti a prevalere: al parlamento europeo costituiranno una forte (e probabilmente rumorosa) minoranza ma non avranno posizioni di governo nell’Unione. A governare saranno ancora popolari e socialisti, questa volta insieme ai liberali euroscettici (l’articolo di Mazzella va ricondotto a quest’ultima corrente politica).
Salvini e compagni, per quanti alleati possano trovare, resteranno dunque fuori dall’uscio delle istituzioni europee a protestare, ma quanto a decidere dovranno accontentarsi di poco più del diritto di Lisbona. Per il grande Matteo sarà probabilmente difficile gestire il suo successo elettorale in Italia: ha ottenuto molti voti in cerca di identità politica, più di protesta che adesione ad un programma che non va oltre il potenziamento delle autonomie locali, annegando per il resto in un mare di promesse irrealizzabili, di cui dovrà dar conto ad un elettorato molto fluido.
Per i pentastellati il discorso è ancor più complesso: la loro sonora sconfitta elettorale ha dimostrato che la forma movimento, in antitesi a quella di partito, può reggere solo a breve termine: la mancanza di un programma politico serio, l’assenza di una pur minima capacità di gestire gli obiettivi parziali realizzati, a partire dal reddito di cittadinanza, il moralismo alla Savonarola, il frate domenicano che alla fine fu bruciato dai suoi stessi seguaci, mostrano dopo poco tempo la corda e gli elettori fanno correttamente altre scelte.
Difficile che i pentastellati si riprendano dalla batosta, dovranno scegliere tra accettare i ricatti della Lega per continuare a governare o provocare una crisi di governo alla quale seguirebbero nuove elezioni da cui la loro rappresentanza politica uscirebbe dimezzata con un futuro di governo molto incerto. Sarà una scelta difficile: Di Maio dovrà scegliere tra il saio domenicano di Savonarola e la divisa da scudiero di Sancho Panza.
E’ probabile che i suoi amici politici decidano di continuare l’alleanza con la Lega almeno fino a quando non abbiano elaborato un caso per provocare una crisi di governo che abbia anche un rendimento successivo sul piano elettorale.
Il PD ha ottenuto un buon successo ma deve ancora riguadagnare le posizioni perdute: ci vorrà molto tempo ed un programma molto più articolato ed omogeneo di quello con il quale si è presentato alle elezioni di domenica scorsa. Zingaretti farà il possibile ma non è detto che ci riesca.
Staremo a vedere: resta comunque il fatto che Salvini ha dimostrato finora di essere molto generoso non pretendendo come Mussolini dopo le elezioni del 1924 di divenire Presidente del Consiglio, lasciando uno “strapuntino” ai popolari. Matteo ha rassicurato gli alleati pentastellati di volerli ancora suoi colleghi di governo, compreso Toninelli, il più grando statista italiano dopo Cavour: tanti auguri!
Mario Pacelli
Si ritiene comunemente che un discorso senza “se” e senza “ma” sia esemplare per chiarezza e determinazione di chi lo propone. Senza smentire la validità dell’asserzione, vorrei provare a dimostrare che una chiacchierata utile sull’Europa del dopo-voto possiamo farcela proprio utilizzando le due particelle indicate. Incomiciamo dai “se”.
SE i cosiddetti “sovranisti” avessero vinto, il ricompattamento del mondo Occidentale sarebbe avvenuto perché l’Europa Continentale avrebbe probabilmente seguito l’esempio della parte Anglosassone, parametrando la sua politica economica a quella coraggiosamente intrapresa dagli Stati Uniti di Donald Trump e timidamente seguita dalla Gran Bretagna di Theresa May. E cioè:
Proseguiamo con i “ma”.
MA, il voto europeo, intervenuto dopo una campagna elettorale caratterizzata da scambi di epiteti che intendevano essere ingiuriosi ma risultavano soltanto stupidi (è immaginabile un europeo che non sia europeista?) ha peggiorato soltanto la situazione della Unione che già non era idilliaca. Il risultato, pur non andando certamente nella direzione sperata dai sovranisti (è chiaro che essi non avranno la forza parlamentare sufficiente per modificare l’assetto normativo e pattizio vigente) non ha certamente soddisfatto le aspettative dei cosiddetti europeisti.
Cristiani, Socialisti, con l’appendice dei Liberali (che sembrano avere rinunciato a ogni loro identità per essere solo caudatari dei due partiti maggiori, che, per inciso, con il liberalismo, per diversi ma non contrapposti fideismi e fanatismi hanno veramente poco a che fare) non potranno prescindere dal difficile rapporto con i popolari di Orban, dopo il successo da lui ottenuto in Ungheria.
La conseguenza di tutto ciò che il risultato elettorale ha determinato potrebbe essere che, paradossalmente, potrebbe risultare accelerata la fine della Unione Europea, così come oggi è costituita e configurata. E ciò – ecco l’altro “ma”- in una maniera che potrebbe dimostrarsi ben diversa e meno soft rispetto a quella “sognata” dai riformisti.
Le exit saranno, infatti, le uniche strade percorribili per chi non vorrà vedere, avendone acquisito consapevolezza, il proprio Paese:
Con lacrime, sudore e sangue… (ecco l’ultimo “ma”) ma con la soddisfazione di ridiventare pienamente arbitro del proprio destino.
Certo. Si dovrà fare tesoro dell’esperienza del Regno Unito di Gran Bretagna che, affidato alle cure di una gentildonna priva di carisma e di adeguata determinazione politica, è stato ostacolato dalle “volpi” di Bruxelles in ogni modo; tale da suscitare la sana reazione degli Inglesi che hanno decretato il successo di Farage, un uomo senza complessi d’inferiorità verso i poteri finanziari di Wall Street e della City.
In conclusione: non è difficile immaginare ciò che avverrà di qui a breve. I Paesi più decisamente euroscettici (idest: più scettici verso la politica dei tecnocrati di Bruxelles, negatrice di ogni sviluppo economico non legato alla politica monetaristica delle Banche) scalpiteranno ancora di più, alimenteranno il clima di “Disunione Europea” e tenteranno di uscire non isolatamente ma in vere e proprie “cordate” per non essere schiacciati dagli gnomi della Finanza.
Negli altri, meno consapevoli dei rischi che corrono, la lotta politica sarà sempre più cervellottica e acefala: si muoverà su falsi binari che conducono allo scontro senza creare alcuna condizione per la ripresa. Il Bel Paese, con il voto espresso, sembra attestarsi nel primo gruppo. Vedremo.
Luigi Mazzella
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