“n’inzetto ca’ se trova dint’a ttutte ‘e ccase vecchie, è niro e lucide, fuje comm ‘a nu dannato e và giranno ‘e notte dint’a cucina o addò trova ‘e mmullechelle. È luongo tre o quatto centimetre e ‘o nommo scientifeco è blatta orientalis. Siccomme è bruttulillo e fa schifo a parecchia ggente, stu’ nomme s’ausa pure pe’ ddicere ca na’ perzona è brutta” (detto napoletano)
Dunque
ogni scarafaggio sembra bello alla propria madre.
E per quanto un figlio, per ritornare ai parametri umani, possa essere brutto nell’aspetto, abbia un caratteraccio, fin’anche delinquente, la madre è quasi sempre disposta a vederlo con gli occhi dell’amore cieco e irrazionale e quel figlio sarà sempre per lei, bravo, bello e buono. Uniche attenuanti riconosciute la cattiveria degli altri. L’amore materno naviga da sempre tra mito a realtà. Tra stereotipi e il loro contrario.
Ma la madre è prima ancora donna. Partiamo dunque dalla definizione del corpo della donna il cui bacino (che ha ispirato tanti artisti oltre tanti mascalzoni ) è largo per permettere la gravidanza e i cui seni sono essenziali per allattare un neonato. Il corpo della donna è elemento fondamentale della riproduzione insieme all’uomo. Più il bacino è ampio e più i seni sono prosperosi più la progenie viene garantita. Ma nell’immaginario maschile non sono questi i soli motivi d’attrazione. Al contrario gli uomini si avvicinano all’altro genere con il timore che ciò avvenga, perché l’attrattiva e la componente sessuale fine a se stessa è maggiore e il desiderio non pensa a riprodursi ma a soddisfarsi. Tutto ciò nonostante che la differenza corporea di genere derivi da motivi antropologici di cui la natura si è attrezzata perché l’unione sia orientata a quest’uopo.
In passato prevalse la necessità di riprodursi per fornire guerrieri, braccia da lavoro, eredi e successori che ha fatto delle donne delle vere e proprie fattrici fino al “fare figli per la patria” dell’epoca fascista.
Il conseguente ruolo della donna unicamente come casalinga, madre e moglie era il risultato finale di una politica di soggezione e di sfruttamento nei confronti del genere più debole (reso tale appunto dalle gravidanze) e che ha avuto lunga vita a livello culturale e politico di cui ancora si nutrono tracce nella società di questo millennio. Questa politica della famiglia disastrosa non ha fatto altro che produrre progressivamente l’allontanamento della donna dalla sfera pubblica e fasce sociali emarginate e povere.
Certo ne è corso di tempo da allora e meraviglia sempre di dovere ancora fare i conti con quel passato. Eppure a ben considerare alcuni comportamenti maschili viene da pensare che troppo poco sia cambiato. Altrimenti non si spiega come mai quasi ogni giorno una donna muore o subisce violenze da parte del proprio partner.
Anche il modo di raccontare i fatti, le modalità difensive per chi si è macchiato di gravi reati appartengono a quel genere di cultura. “Era un bravo ragazzo, una persona tranquillissima, un gigante buono, lei era incinta e lui non voleva, lo tradiva, era depresso, aveva paura che lo lasciasse, non voleva che i figli stessero con la madre ecc.” e tutto questo se non vuol dire scagionare vuole dire comunque attenuare le responsabilità dell’individuo.
Ma partiamo da un presunto inizio. Da quando un bambino cresce in un atmosfera di permissivismo totale. Può fare ciò che vuole, ottenere tutto ciò che desidera con le buone o con le cattive. Quando la mancanza d’istruzione e di lavoro viene condivisa e sostenuta come una cosa normale, quando si chiudono gli occhi davanti le prime avvisaglie di disagio è cioè è già troppo tardi per recuperare l’uomo sociale. Troppo spesso la famiglia si pone in modo protettivo e senza la minima autorità. A un bambino, poi ragazzo, a cui la famiglia ha sottratto ogni senso di responsabilità, sarà molto difficile accettare leggi di un contesto comunitario diverso e regole che non gli appartengono.
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