Acquisito il risultato elettorale europeo, commentarlo può non essere la cosa più divertente e piacevole del mondo.
Si tratta pur sempre di ammettere che più della metà degli italiani ha accreditato la ruminazione, imprecisa e ingenerosa, antieuropea.
Si tratta di constatare che il 47% degli italiani non è andato a votare (guarda caso è la stessa drammatica percentuale degli italiani analfabeti di ritorno, anche se naturalmente non coincidono perfettamente).
Si tratta di prendere atto dell’esito della coppia dei partiti al governo che per un anno anziché governare con serietà e concordia nell’interesse del Paese ha fatto il gioco delle parti a giorni alterni, uno al governo e uno all’opposizione, per massimizzare la presenza sui media sempre golosi di allarmismo e spettacolarizzazione; ebbene quella coppia ha persino migliorato un po’ il risultato elettorale complessivo delle consultazioni nazionali del 4 marzo 2018, poco importa se redistribuendolo al proprio interno.
Si tratta di guardare con realismo al risultato del PD che, candidando lo spettro più ampio possibile di posizionamenti (da Pisapia a Calenda), è vero che resta in carreggiata ma – tralasciando il dimezzamento rispetto alle precedenti europee – in voto assoluto prende persino un filo meno del voto avuto alle più recenti nazionali e svuota il pluralismo nel centro sinistra che è arma preziosa per le prossime consultazioni interne.
Si tratta di farsi una ragione sul fatto che le due proposte meglio accolte nei paesi importanti europei (quella ambientalista e quella europeista di tipo liberal-democratico) in Italia non arrivano al quorum, molto più per distanza sostanziale tra la cultura europeista vera degli italiani che per insufficienza di proposta ideale e sostanziale.
Infine – dettagliuccio emblematico – bisogna qui avere memoria del film “Fuocoammare”, ovvero la storia dei due mondi separati – per capire perché metà (appunto “la metà”) degli isolani di Lampedusa abbia votato per Salvini.
Tutto ciò detto, mettiamo gli occhi su due dati, quello del voto degli italiani che vivono in Europa e quello del voto degli italiani che vivono nelle grandi città.
Non c’è consolazione possibile rispetto a dati che debbono essere colti nel senso democratico complessivo di una consultazione. E tuttavia essi disegnano, come molti giornali scrivono, un’altra Italia, fatta di molteplici comunità territoriali.
Cominciamo dai cinquantamila italiani che hanno votato vivendo in vari paesi europei: PD 35,36%, Lega 25,54%, M5S 11,04%, EU Verde 10,97%, Più Europa 9,88%. Certo, 50 mila, un quartierino di una città. Ma stiamo parlando di cinquantamila piccoli ambasciatori di italianità nell’intero sistema Europa, quelli capaci di incrementare o sciogliere i molteplici pregiudizi e stereotipi sugli italiani che continuano a danneggiarci in giro per il mondo.
E poi parliamo delle nostre grandi città. Per carità, non tutte, non come un unico sistema urbano. Ma a Milano e a Roma il PD è primo partito rispettivamente con il 35,97% a Milano e il 30,62% a Roma. Più Europa in entrambe le città ce la fa, a Milano con il 5,33%, a Roma con il 4%. 5 Stelle (che a Roma governa) arriva al 17,58%, mentre a Milano (dove non governa e poco si vede) arriva all’8,53%. La Lega va forte, certo (27,39% a Milano e 25,78% a Roma), ma non è il primo partito. Forza Italia a Roma è annientata (5,6%) mentre a Milano arriva al 10%; Fratelli d’Italia a Milano è poco più del 5% e a Roma arriva all’8,7%.
Nel rapporto tra PD e Lega stesso impianto di voto a Torino e a Bologna: il PD primo (30% e 40% rispettivamente) e la Lega secondo partito (a Torino al 26%, a Bologna al 21%). Genova e Firenze (che premia anche il sindaco Nardella al primo turno) seguono la stessa onda.
Il Sud cambia musica, ma non laurea la Lega (a Napoli al 12%, a Bari al 21%, a Palermo 18%) e continua a premiare Cinque Stelle (33% a Napoli, 27% a Bari, 31% a Palermo 33% a Catania).
Insomma la grande divaricazione che si va affermando nel mondo (dagli Stati Uniti alla Francia, dall’India all’Italia) distorce le vecchie categorie ideologiche di destra e sinistra ma scava fossati tra culture urbane e culture territoriali e rurali, soprattutto tra chi ha ancora qualche riconoscimento sociale (operai compresi) e chi non ne ha più alcuno, salvo il “vagare” o nel precariato, o nella mobilità territoriale o nella genericità professionale e sempre comunque nel sistema delle sotto-qualità dei consumi.
I fossati sono soprattutto identitari e di comprensione dei processi in atto. Tanto che Trump dice al suo elettorato “noi siamo uguali”! Lui miliardario, loro se finiscono in ospedale devono vendere un rene per curarsi, eppure percepiscono di “essere uguali”. Da noi è lo stesso. Non è per caso che Salvini si fa fotografare davanti alla sua pseudo-libreria, dove tiene un’icona ortodossa, il berretto di Trump, la foto di Putin, il Tapiro d’oro finto, il cappello dei carabinieri, l’ampolla con l’acqua del Po. Intanto la Francia profonda ci dice che gli agricoltori preferiscono – di una iota, ma preferiscono – Marine Le Pen all’erudito Macron con l’argomento che l’Europa non avrebbe fatto i loro interessi in agricoltura. Incredibile!
Tutto ciò non cambia il senso dei risultati e non cambia le pesanti conseguenze che sono possibili, forse – in Europa – contenute nella alleanza di governo che può essere possibile tra forze europeiste ancora in maggioranza (che relegano l’Italia a paese fuori dal quadro di governo europeo).
Ma tutto ciò rende ancora più evidente che chi vuol far politica in Italia deve lavorare moltissimo più sulla formazione della domanda che sulla esibizione all’ultimo momento delle candidature.
Una strada lunga, seria, meditata, rifacendo alleanze sociali e territoriali.
Senza pensare che una foto su Instagram cambi il destino di un voto socialmente segnato.
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