C’è un rimedio contro i ladri di democrazia? Molti se lo sono chiesti e se lo chiedono ancora: le risposte, anche se molto diversificate, sono nella stragrande maggioranza espressione di una mancanza di fiducia che sembra non ammettere repliche.
Pochi credono alla giustizia penale come deterrente contro la corruzione e non hanno tutti i torti: i frutti della vendita di frammenti più o meno grandi della cosa pubblica sono così ingenti da far passare in secondo piano qualche anno di permanenza nelle patrie galere, sempre che sopravvenga una provvidenziale prescrizione del reato, come sembra capitare spesso a personaggi di una certa notorietà.
La forza deterrente della pena come dissuasione dal reato è ormai cosa che si studia all’università per conseguire la laurea in giurisprudenza ma nella vita di ogni giorno è pura astrazione. Nella peggiore delle ipotesi c’è sempre la via di fuga degli arresti domiciliari. Le carceri sono sovraffollate: troppi spacciatori di droga, troppi borseggiatori, troppi delinquenti di piccolo calibro. Meglio che i semplici ladri di democrazia non abbiano a frequentare certe compagnie.
Capita talvolta che una persona riconosciuta colpevole di aver rubato denaro pubblico continui a percepire un’indennità per l’esercizio di una funzione pubblica ma nessuno sembra stupirsene più di tanto.
Se il giudice che decide la pena, il carabiniere che porta il condannato in galera, il non certo confortevole soggiorno in una cella ogni mattina ad aspettare la sera non sono sufficienti per combattere la corruzione quale altra possibile soluzione resta per combattere i ladri di democrazia? La risposta, apparentemente paradossale, è una sola: la democrazia. Far sentire la propria voce, intervenire attivamente ogni volta che si tratti di assumere decisioni riguardanti il gruppo sociale in cui si vuive, non rassegnarsi ad accettare supinamente imposizioni frutto di arroganza prima ancora che di perversi interventi privati: è la democrazia, la regola della democrazia, anche se poi qualcuno, un tempo volto austero del paese, ritiene che sia legittimo far finta che un referendum, uno dei pochi casi di democrazia diretta, non esista a causa dell’anagrafe che fa talvolta brutti scherzi.
Il problema è che nelle moderne democrazia industriale gli spazi della partecipazione (“la libertà è partecipazione” cantava Giorgio Gaber) si sono andati man mano restringendo in nome di esigenze decisioniste che si affermano indotte dall’economia globalizzata. Gli schemi classici della democrazia delegata, del mandato politico fiduciario, del partito politico quale ponte tra società e stato sono in crisi. Si è creduto e si crede ancora che il rimedio possa essere la democrazia referendaria di cui Marco Pannella è stato per lungo tempo il profeta, o il sistema delle autonomie locali, tanto caro al socialismo municipalista del secolo scorso ed ai cattolici neoguelfi che, finché è esistita hanno nidificato nella D.C. o il partito politico garante del funzionamento delle istituzioni: si sono dimostrate tutte belle utopie finite nel triciclo dello straccivendolo di “Ecce Bombo”.
“A che punto è la notte”, per usare il titolo di un celebre romanzo di Fruttero e Lucentini? È ancora buio, molto buio anche se molti lavorano per accendere almeno una lampadina. C’è chi propone di utilizzare internet per un nuovo sistema di democrazia diretta: il successo elettorale c’è stato ma la proposta programmatica che consenta di far fronte alla complessità di un sistema complesso di democrazia governante è risultato (almeno fino ad ora) piuttosto debole. Altri hanno individuato nell’articolazione territoriale del potere pubblico centrata sul comune e su una sorta di federazione di comuni un meccanismo per immettere maggiormente i cittadini nella gestione del potere pubblico ma i tentativi (in una regione, fra l’altro, avente peculiari caratteristiche geografiche e sociologiche come il Friuli-Venezia Giulia) non sembrano aver dato i risultati sperati. Vi sono poi gli inguaribili ottimisti a proposito dei partiti politici: il progetto di legge in discussione presso la prima commissione della camera dei deputati ne dovrebbe in futuro garantire la democraticità interna in funzione di strumento di partecipazione politica: a parte la incerta sorte del progetto sembra però quantomeno dubbio che sia sufficiente una legge a garantire un peggior avvenire ai ladri di democrazia.
Le speranze di uscire in tempi brevi dalla “morta gora” non sono dunque molte, circa l’8% della popolazione (tanti sono gli immigrati) è ancora ai margini del sistema politico: la eventuale cittadinanza italiana attribuisce i diritti civili ma molto più difficilmente garantisce quella cultura politica che è già molto scarsa nl nostro paese.
Le modifiche costituzionali sulle quali gli italiani saranno chiamati a pronunciarsi nel prossimo autunno non posso essere ritenute il toccasana i tutti i mali. Il nodo del problema è una crescita della partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica intesa non solo come diritto ma anche come dovere. Se è un dovere civico bloccare chi sta commettendo un reato lo è ancora di più impedire che qualcuno continui a rubare democrazia agli italiani. C’è qualcuno che crede che il risultato si possa conseguire ponendo sul banco degli imputati tutta la classe dirigente: troppo semplice per essere vero. Sarebbe bene rifletterci un po’ sopra a scanso di sorprese: una potrebbe essere sentire un giorno un figlio chiedere “ma tu dove eri? Cosa facevi? Cosa pensavi”. Può succedere: mezzo secolo fa a qualcuno è accaduto.
P.S. Queste note erano gia’ scritte quando e’ divampata la polemica tra il Presidente dell’ANM Davigo e quello dell’Anticorruzione Cantoni. Qualche anno fa ho partecipato ad un dibattito con Davigo: lo ricordo come un uomo con una straordinaria cultura giuridica ma non ebbi l’impressione che fosse altrettanto per le scienze politiche. Ritenni allora e ritengo oggi che fosse giusto cosi’: il governo dei giudici e’ la piu’ antica forma di governo, ma ormai risale a qualche migliaio di anni fa e francamente non mi sembra riproponibile. Unicuique suum, a ciascuno il suo direbbe Leonardo Sciascia.
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