Si avvia a Milano una storia di autogestione del public branding.
Mi chiama un’amica, giornalista con sensibilità culturali, al Giorno da molti anni.
E per far subito capire con non è la frequente telefonata ad amici “informati dei fatti”, per mettere meglio a fuoco un tema del giorno, mi dice: “Forse tu non sai che abito nel quartiere che giusto confina con lo IULM, la tua università: il Giambellino, che a Milano tutti conoscono anche se non saprebbero più dire perché e caratterizzato da cosa. Leggo le cose che fai più spesso, che tu chiami public branding, e credo che noi qui al Giambellino, abbiamo a che fare con questa cosa, non so se chiamarla qualità o malattia”.
Così, da qualche tempo, abbiamo creato due piccole squadre: lei una rete di cittadini con spiccato civismo che “pongono problemi”, io alcuni colleghi che hanno competenze disciplinari confinanti che “pongono problemi”. Chi legge avrà già capito che in questo campo non esistono soluzioni se lo schema di analisi è uno che domanda e l’altro che ha la soluzione in tasca.
Fatto un piccolo inventario (spicca la prima dimostrativa riunione della Giunta Sala, dopo l’elezione a sindaco, proprio al Giambellino), si fissa una riunione in università, per fissare un percorso conoscitivo e partecipativo. Qualcuno morde il freno perché avrebbe già pronta una bella iniziativa rivitalizzante, ma quel metodo non permette salti in avanti. Le soluzioni arrivano se non si prendono scorciatoie.
Seconda riunione (allargata) nella storica scuola elementare “Nazario Sauro” nel cuore del quartiere, che anche i meno giovani hanno comunque nel proprio cuore perché frequentata nel tempo. Lì la percezione dei ricercatori è di aver trovato due punti fermi: un laboratorio sociale multietnico da prendere in considerazione, una dirigente scolastica all’altezza della parola “dirigente”.
La terza riunione, infatti, è sempre nella stessa scuola mettendo insieme genitori – sia italiani sia di stabilizzata immigrazione – impegnati negli organi scolastici. Di mezzo un giro accurato nel rettangolo delle vie cantate cinquanta anni fa da Giorgio Gaber nella tipizzazione di un furbetto locale (gli amici “lo chiamavan Drago”) che “al bar del Giambellino” mirava una Lambretta per fare il suo primo colpo guadagnandosi però due anni a San Vittore.
I cantieri della M4 hanno tagliato in due strade e soprattutto semi-occultato i negozi. E’ la linea che porterà in centro e poi diritti a Linate. Fra qualche anno tutto il patrimonio edilizio sarà rivalutato, ora si raccolgono solo mugugni, che originano largamente per le condizioni dei 2448 alloggi popolari ALER e per i negozi che chiudono per fatturato dimezzato.
Venendo qui (ma conoscendo anche bene quelle strade) facevo l’inventario del “patrimonio simbolico”, che è il primo snodo di qualunque approccio di public branding. Il Giambellino del Cerutti Gino c’è ancora, ma affievolito molto nei significati, se non quello di qualche illegalità organizzata che persiste ai margini del quartiere. Non c’è un monumento che io ricordi, non c’è un museo o un luogo d’arte. C’è un cinema multisala con buona programmazione e, sempre ai margini del rettangolo, un cinemino porno, infilato nell’area delle case délabrées, ora chiuso, che una mia collega storica del cinema mi chiede di tenere d’occhio come possibile via d’uscita di una iniziativa di cinema di qualità a dimensione di quartiere.
Mi viene anche in mente il confinante quartiere ebraico, nella sua apparente assenza di carattere edilizio ma come area abitativa di una comunità con evidenti storie e significati e con esercizi commerciali molto tipizzati.
Poi l’elenco che straripa è piuttosto quello di cosa non c’è. E che esiste invece, per caso o per scelta, in molti quartieri confinanti, partiti come conversione di aree operaie o artigianali della città industriale e diventati zone di spicco del design, della moda, dell’arte e della creatività. Proprio adiacente è l’area dello straripante e di crescente successo “Salone del Mobile”. Si dice che arriverà qui una grande e non meglio precisata Biblioteca, ma ancora – in questo indistinto – si tratta di un oggetto senza domanda. La domanda è sulle case popolari Aler prive di manutenzione da mezzo secolo (un secolo è l’età di tutto il quartiere sorto negli anni ’20); è sulla crisi del piccolo commercio; è sul marginale verde attrezzato che serve a famiglie e bambini; è – in buona sostanza – su come si fa nella città più veloce d’Italia in materia di cambiamento a partecipare a questa strana magia, uscendo da un indistinta, lenta dequalificazione che rischia di assomigliare molto alla lunga crisi del ceto medio in parte in un processo di proletarizzazione.
E questo il dato che accoppia l’oggettività delle aree periferiche o semiperiferiche di molte città e il sentimento di auto-percezione di una parte sociale che vorrebbe “fare qualcosa” per fermare la deriva.
Giambellino in realtà è solo una porzione di quartiere, la cui parte più ampia amministrativamente è costituita dal Lorenteggio. Bisognerà tenerne conto, anche se il senso di appartenenza spinge ormai – in epoca global – verso il più accentuato localismo. Infatti è proprio su quel “fare qualcosa” che comincia a prendere corpo l’iniziativa. Creando condizioni partecipative e di comprensione dei fenomeni, a cui concorre il team universitario. Fino a generare una condizione di tensione alle soluzioni che diventa il vero argomento per potere da un lato avere una interlocuzione con le istituzioni del territorio, senza avere solo il cappello in mano, ma anche avendo maturato un orientamento al futuro. Intanto grazie anche al progetto Cityschool con cui il Comune ha stabilito nessi permanenti con le otto università milanesi in materia di quartieri e periferie.
In un tessuto complessivo urbano carico di iniziativa privata assai mobile, mettere in evidenza l’opportunità di farsi venire una buona idea anche per questa porzione di città che tra poco sarà collegatissima con l’esterno rischiando però di diventare scollegatissima con sé stessa e la propria storia. Fra qualche mese, qui, la seconda nota per raccontare come è andata a finire.
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