Pensavamo che il Festival di Cannes avrebbe dato un riconoscimento al ritorno italiano al “cinema civile”. Ma, come sanno gli addetti ai lavori, non bastano 13 minuti di applausi a sipario tirato per influenzare una giuria che forse deve contribuire a fare di Cannes un festival che connetta geopoliticamente la Francia al mondo, argomento che accorcia molto le possibilità per l’Italia.
In ogni caso è ancora il legame tra critica e pubblico a fare del “Traditore” di Marco Bellocchio non solo il film forse più riuscito di questo regista, ora ottantenne, ma anche un film che ha i mezzi per una distribuzione ampia che viene ripagata dal pubblico. Lo stesso regista ci propone una chiave di interpretazione del successo. Ho mirato, dice, a riprendere il discorso sulla “patria” in un approccio ben lontano da quello di Matteo Salvini e dei sovranisti attuali, ma incarnato da una figura come quella di Giovanni Falcone “con il suo senso dello Stato e delle istituzioni che arrivò al sacrificio della vita” (1).
Per un regista di lungo corso formatosi in una sorta di ribellismo certamente anticonformista ma con tratti anche anti-istituzionali per quei tempi (2), qui si fanno i conti (con qualche elemento liberatorio) in più direzioni, tra passato e presente. C’è di più in questo film. Persino un tema di “tradizione” che, con la lettura che viene fatta di Tommaso Buscetta, tiene dentro il perimetro della “tradizione” anche l’idea di un sistema comunque malavitoso. Inizio e fine del film non lasciano dubbi sulla collocazione del “traditore” Buscetta che, tuttavia, rovescia su Riina e i corleonesi l’accusa di una svolta animalesca che uccide donne, giudici e bambini e centra il proprio business sullo spaccio di droga.
Ben inteso, l’argomento è ambiguo e rimanda ad una storia difficile da scrivere dei due tempi della mafia, quello della intermediazione violenta del potere nel territorio (lavoro e giustizia compresi) e quello della pura strada criminale (3).
Ma torniamo all’idea di “patria”. E’ nell’aria, parlo di questo 2019 e del clima delle elezioni europee, il tema autocritico di avere lasciato un grande filone di ispirazione civile tendente alla libertà, all’indipendenza e alla giustizia, nella mani di una destra povera di cultura storica, con simboli abborracciati, capace di usare l’idea di nazione come una clava per essere uno scudo pseudoprotettivo a fronte degli effetti più negativi della globalizzazione.
Mentre la tradizione garibaldina guardava fervidamente al mondo, riconosceva il sentimento di identità nazionale anche nelle altre identità nazionali, aspirava all’Europa in senso federalistico, questa deriva ha ricalcato orme già solcate dal fascismo. Un’idea di patria intesa come una ridotta, un “prima gli italiani” che vuole sfruttare il successo, tanto intuitivo quanto becero, di Trump, ma non consentendo più a quella “patria” disegnata in una caverna culturale di essere difesa ne’ in Europa ne’ nel mondo. Cosi come la crisi economica di un paese sensibilissimo alla reputazione internazionale sta facendo capire, riportandoci in quattro e quattr’otto nella recessione.
Perché è avvenuta questa incredibile cessione di territorio? Perché esso è stato coltivato per due secoli soprattutto dalle culture risorgimentali e post-risorgimentali, con il riconoscimento di un parte del gramscismo e naturalmente di una parte sostanziale della cultura dei cattolici liberali. Esattamente l’area di cultura politica che, a poco a poco, è stata ridotta ai margini del ridisegno della politica italiana. Un ridisegno compiuto prima dalla seconda Repubblica (la “patria” di Berlusconi e’ stata una evidente caricatura) poi dell’insorgente terza repubblica sortita su cause realmente irrisolte ma con pretesti deculturalizzati.
In particolare socialisti e repubblicani, insieme ad una componente liberal-radicale, hanno trasferito – grazie alla loro importante radice azionista resistenziale e costituzionale – un’idea applicabile alla difesa di un grande valore compatibile con lo stare nelle dinamiche competitive internazionali. Eugenio Scalfari ci ricorda ora che il concetto di “sinistra” viene introdotto nel dibattito politico dell’Italia moderna da Mazzini e Garibaldi, legittimato dallo stesso Cavour come parte costituente della identità dell’unità della Nazione (4).
L’emarginazione di questo presidio fortemente connesso all’idea del servizio riformatore alle istituzioni, ha purtroppo abbandonato le istituzioni ad ogni scorreria. Fino ad assistere alla propaganda leghista pagata dal contribuente italiano gestita dentro i ministeri.
Una breve annotazione su una battuta del giudice Falcone (interpretato sobriamente da Fausto Russo Alesi) nel serrato interrogatorio di Buscetta al centro del film.
A un certo punto dice: “Non ci sono intoccabili! Non mi fraintenda, ma ho più paura dello Stato che della mafia!”. Non so se essa sia vera letteralmente. Può essere. In ogni caso vuole intendere la percezione – in quegli anni durissimi, torbidi, con stragi, irrisolti, complicità e scontri evidenti tra soggetti al servizio di uno Stato conservatore e organizzatore di privilegi e uno Stato da riformare coinvolgendo nuove culture e nuove generazioni (parlo anche per memoria personale) – di un posizionamento drammaticamente chiaro.
Ecco perché la figura di Giovanni Falcone – come lo è stata nel cinema per Carlo Alberto Dalla Chiesa – ha connotati narrativi precisi che si richiamano ad una esperienza discriminante. Non a caso, nella realtà storica, insidiata da una certa sinistra al tempo in cui lo stesso Falcone doveva lottare duramente per imporre una linea e non a caso messa in condizione di protezione e di incoraggiamento da un ministro della giustizia socialista (e in gioventù repubblicano), come Claudio Martelli, in un quadro di governo di centrosinistra fermamente delimitato a destra e a sinistra, allora in attesa di capire se la caduta del muro di Berlino potesse produrre più verità che cameleontismi.
Oggi, operazioni come il film di Bellocchio, che si avvale di bravissimi sceneggiatori e interpreti (un applauso a Pierfrancesco Favino, naturalmente, ma anche alla interpretazione sgradevole fino all’intollerabile di Pippo Calo’ che svolge Fabrizio Ferracane), possono rimettere in sintonia un pensiero civile ancora molto vasto in Italia, naturalmente anche al di fuori delle culture di partito che hanno nel passato custodito meglio un’idea progressista di “patria”.
Dunque un bel segnale alla cultura, all’arte e agli intellettuali di fare quello che la politica fa ormai con poca narrativa, con poca creatività e con insufficiente ispirazione. Per stimolare una rigenerazione comunicativa anche della politica, che non vuole dire twittare meglio ma soprattutto pensare di più e ricordare con più passione le nostre migliori radici.
(1) “Nel mio film su Buscetta volevo parlare di Patria”, intervista di Paolo Conti a Marco Bellocchio, Corriere della Sera, 1 giugno 2019.
(2) I pugni in tasca e’ del 1965, La Cina è vicina e del 1967.
(3) Ampia comunque la letteratura sulla mafia di tradizione concentrata nel rapporto protettivo-estorsivo nel territorio con spunti nello stesso Falcone che a cavallo degli anni ‘80 e ‘90 segnala la trasformazione criminale e internazionale (Cose di Cosa Nostra, in collaborazione con Marcelle Padovani, Rizzoli, 1991).
(4) Eugenio Scalfari, La scatola vuota dei 5 Stelle e il nuovo cinema della sinistra, la Repubblica , 2 giugno 2019.
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