Mercato vuol dire innanzitutto domanda e offerta, un rapporto che non può essere senza regole per il semplice fatto che un mercato non regolato tende inevitabilmente ad essere selvaggio. Le leggi che oggi regolano il mercato sono vecchie, sono norme o regolamenti che non vengono cambiate anche perché funzionali agli interessi della grande industria alimentare.
Faccio un esempio: per estrarre l’olio dai semi è necessario fare una farina di semi, per fare con questa farina una pasta ci utilizza un solvente chimico – l’esano – che si usa anche nella lavorazione della benzina. L’esano quindi interviene nel processo di produzione dell’olio di semi, ma l’industria ci assicura che scompare, mentre lo scienziato prudentemente afferma che ne rimane “una modica quantità”. Se ciò è vero scriviamolo sulla confezione, sarà poi il consumatore a decidere se comprarlo o meno.
Secondo una ricerca condotta dal dipartimento di scienze biomediche della Georgia State University pubblicata sulla rivista British Medical Journal gli emulsionanti carbossimeticellulosa e il polisorbato 80 molto usati dall’industria alimentare sono in grado di modificare il microbiota alterandone l’espressione genetica in modo da favorire i fenomeni infiammatori e la comparsa di sindrome metabolica. Queste due sostanze, prese in esame da questo studio, si possono trovare in molti alimenti perché sono utilizzare dall’industria alimentare per aumentare la stabilità e la durata dei prodotti da forno, salse, creme e gelati. Se il rischio esiste avvertiamo il consumatore, sarà poi lui a decidere cosa fare.
Il cibo esce dalle case e diventa paesaggio urbano spalancando nuovi spazi e nuovi modi di stare insieme per un’umanità a banda larga. Si mangia ovunque. Si mangia al ristorante, allo snackbar, per la strada, si mangia qualsiasi cosa, ma spesso, molto spesso, non si sa cosa si mangia.
In mezzo alla strada, la prima volta che andai a New York, comprai un hot dog. Era buonissimo con il ketchup e salse varie. Stetti male un’intera giornata. Molti anni dopo acquistai un documentario sul cibo di un regista americano in cui era descritto il processo di produzione del würstel: buttare animali vivi e morti dentro un gigantesco tritacarne come assistere ad un film horror. Non ho più mangiato un würstel ma non c’è etichetta che racconta questa storia.
Le etichette sono opache, quando non sono oscure, oltre i valori nutrizionali, gli ingredienti, l’origine della materia prima è ora che sull’etichetta ci siano scritti tutti i prodotti chimici utilizzati nel processo di produzione. È in gioco la salute dei consumatori: facciamo il caso più semplice, compro un alimento che nel processo di trasformazione è contaminato da una sostanza a cui sono allergica, io non lo so, compro quel prodotto, lo porto a casa, lo mangio e sto male. Ma non so che dipende da quella sostanza perché non è scritto da nessuna parte cosa c’è nel cibo che ho comprato.
Si deve mettere sotto osservazione le leggi e le regole. Vediamo cosa si può cambiare. In questo contesto è chiaro che va favorito l’artigiano del cibo perché l’artigiano del cibo non usa la chimica, è legato al territorio, alla storia, alla sua tradizione, alla sua qualità. Questo è possibile: abbiamo una legge della Regione Puglia sull’olio d’oliva che riconosce all’art1 come unico produttore di olio il frantoio artigiano. Gli altri sono confezionatori e gli agricoltori coltivano le olive. Il vero produttore è il frantoio artigiano. All’art 2 la legge dichiara che l’olio dalle olive è prodotto da un mastro oleario e istituisce un albo professionale. Tutti coloro che fabbricano cibo dovrebbero avere un albo professionale perché il cibo non lo può fare chiunque. Perché un cibo prodotto male è peggio di una pistola alla tempia.
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